Michela Burzo è una disegnatrice che ha collaborato con importanti realtà editoriali come lei stessa ci racconta in questa intervista.
Breve presentazione.
«Sono un’illustratrice freelance con diverse pubblicazioni all’attivo. Ho lavorato, direttamente o tramite studi intermediari, per varie case editrici, tra cui: Warner Bros, Panini, Hasbro, Mondadori, Edizioni Play Press, Raffaello Editrice, Hobby & Work, Egmont Magazines U.K., La Clef Enchantée ed Editions Auzou per la Francia. Nel 2013 ho vinto il concorso per illustrare il libro educativo “Cendrillon au Brésil” indetto dall’associazione francese “La Clef Enchantée” in collaborazione con la delegazione del Brasile presso l’UNESCO. Il progetto pedagogico è stato presentato allo spettacolo “Cendrillon au Brésil” presso la Maison de l’Unesco, a Parigi. Nel 2014 ho vinto il concorso “Crea la Mascotte di Cioccoshow” ideando la mascotte ufficiale dell’evento. Negli ultimi anni ho intensificato la ricerca di uno stile personale, studiando tecniche pittoriche come l’acrilico e la pittura ad olio, e volgendo la mia produzione a una espressione più artistica. Recentemente mi sono specializzata in “Toys Design: dal giocattolo al libro-gioco” presso IDI, Milano, poiché penso che le potenzialità del libro siano infinite. Continuo a studiare e sperimentare incessantemente, certa che solo da un lavoro continuo su noi stessi e sui nostri mezzi espressivi possiamo contribuire a creare qualcosa di personale e unico da donare al mondo».
Come è nata la tua passione per l’arte e quando hai capito che sarebbe stato un lavoro?
«La mia passione per l’arte è nata dalla mia passione per il disegno e il fatto che amassi disegnare è uno dei primissimi ricordi che conservo della mia infanzia. Ricordo con chiarezza quando ho cominciato a disegnare le mie prime bambine, e da allora non ho mai smesso. Da piccola mi nutrivo continuamente di immagini: dai cartoni animati che ridisegnavo su minuscoli pezzi di carta, ai libri di fiabe di cui amavo le illustrazioni ricche di dettagli, fino ai veri e propri libri di storia dell’arte che mi regalava mio padre. Ricordo che già allora guardavo con estremo interesse i dipinti di Caravaggio, percorrevo con lo sguardo i corpi e la loro muscolatura definita dalle ombre, mi incantavo. Quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo sempre: “disegnare”. E’ dunque stata una spinta che ho sentito sempre forte e chiara dentro di me, e quando finalmente ho potuto scegliere quale università frequentare e quali studi condurre dopo, non ho avuto dubbi: ho conseguito il diploma di laurea all’Accademia di Belle Arti di Bologna, e nel contempo ho frequentato un corso di “Illustratore grafico per l’editoria e l’animazione”. Da lì sono venuti i primi contatti lavorativi, e da lì ho cominciato a capire che davvero potevo farne un mestiere.
Con tre aggettivi, come descriveresti il tuo stile?
«Onirico
Morbido
Simbolico».
Come nascono le tue opere e che destinazione trovano?
«Dipende dal tipo di opera. Quando inizio un lavoro su commissione mi preoccupo anzitutto che il cliente sia soddisfatto. E’ un lavoro, non un hobby, e come tale bisogna approcciarlo. Per questo procedo per step, sottoponendo tutti i passaggi dell’opera, dai primi bozzetti fino alle tavole definitive. Amo molto la professione di illustratrice proprio perché la trovo estremamente complessa: è una sfida, devi imparare a camminare dapprima in punta di piedi, prendere le misure degli spazi in cui muoverti, per poi poter avere la libertà di danzare con la tua creatività. La zona in cui puoi dare sfogo alla tua immaginazione rimane circoscritta da paletti, che siano il formato delle tavole, la relazione con il testo, lo spazio stesso che testo e immagini devono dividersi, ed infine – non da ultimo – il gusto del committente. Ma quando riesci a combinare tutte queste esigenze ed il cliente è soddisfatto del lavoro, la gioia è impagabile. Anche quando hai dovuto rinunciare a qualche tua idea per andargli incontro. Quando invece creo un’opera artistica scevra di vincoli, ed il mio committente sono io stessa, posso godere di maggiore libertà. In genere ho in mente un progetto, o un tema ricorrente, sul quale tuttavia mi sento più libera di improvvisare o rimescolare le carte in corso d’opera. Questo tipo di approccio è indubbiamente più rilassante e mi permette di andare maggiormente in profondità nel mio sentire. Mi sento tuttavia più esposta, perché in un’opera artistica ti mostri senza filtri, senza pelle, con tutta la tua sensibilità ed il tuo mondo interiore offerti alla vista del pubblico. Le mie opere hanno dunque le destinazioni più diverse: dai libri per bambini al quadro, proprio perché diversa e variegata è la mia produzione».
Tra le tue diverse esperienze lavorative, ce n’è qualcuna che ti ha dato maggior soddisfazione?
«Ce ne sono diverse, ne cito due che mi sono particolarmente care. La prima è relativa alla mia collaborazione con l’associazione francese “La Clef Enchantée”, con cui ho sempre lavorato in grande armonia. Nel 2014, dopo aver vinto il concorso per illustrare il loro libro educativo su Cenerentola, è avvenuta la presentazione del progetto pedagogico durante lo spettacolo “Cendrillon au Brésil” presso la Maison de l’Unesco, a Parigi. E’ stata una grandissima emozione poter vedere le mie tavole ed il mio nome apparire in grandi dimensioni durante questo evento. La sala era piena, e le mie immagini erano proiettate su un grande schermo; sotto le mie illustrazioni ho visto bambini cantare, ballerini esibirsi, ed ho assistito al racconto della storia svolgersi su due livelli: quello della rappresentazione tramite il balletto, e quello della narrazione tramite le mie tavole. Penso che non ci sia bisogno di aggiungere altro per far comprendere la mia felicità quel giorno.
L’altra esperienza lavorativa che sento di citare è quella con Elena Cavallucci in arte TataFata (www.tatafata.it). Ho realizzato per lei più di un libro illustrato, e la carica e la sintonia che sento ogni volta che realizzo immagini sui suoi testi è grande, poiché mi ritrovo molto nel suo immaginario poetico. In particolare lavorare al suo progetto “Amin e Nima. Due cuori di porcellana©” mi ha arricchita enormemente. Abbiamo creato quel libro con molta dedizione, consultandoci spesso su quali fossero le soluzioni migliori, studiando non solo le immagini e il loro legame con il testo scritto, ma anche la struttura stessa del libro; “un libro-ponte”, un “tappeto di emozioni” che si srotola come un unico foglio, alludendo alla vastità del mare all’orizzonte. Ancora oggi, pur conoscendo quasi a memoria il testo, ogni volta che riapro il nostro libro e leggo le parole di Elena associate alle mie immagini provo una grande commozione, forse perché mi sono risuonate da subito, e nel disegnare i bambini protagonisti di quell’albo illustrato ho messo veramente me stessa. Quando permetto alla nostra opera di spiegarsi nei suoi 3 metri di lunghezza sento che davvero un libro può essere più di un insieme di pagine rilegate che racchiudono testo ed immagini, più della somma delle singole parti, sento che può essere uno scrigno, un oggetto da maneggiare con cura che ti offre la chiave per entrare in un’altra storia, in un altro mondo. Il progetto del libro è in cerca di un editore, e spero davvero che lo trovi presto, perché il messaggio che porta con sé è molto forte».
Tanto lavoro e impegno, cosa vuol dire essere un’artista oggi?
«Vuol dire non staccare mai dal proprio lavoro, nel bene e nel male. Qualunque esperienza tu viva in qualche modo la porterai nel tuo lavoro, qualunque stimolo visivo o immaginativo potrebbe essere spunto per un nuovo progetto. Tutto questo è ovviamente bellissimo, ma non ti permette mai di mettere un vero limite al tempo che passi pensando alla tua prossima opera. E sempre la mente è più veloce delle mani, per cui mentre stai completando lentamente una tavola magari ne hai già due o tre in mente nel cassetto stracolmo dei progetti in cantiere. Vuol dire anche – soprattutto in Italia – non vedere riconosciuto quanto impegno, studi, ed ore di lavoro certosino hai impiegato per produrre un’opera. Non solo da un punto di vista remunerativo, a volte manca anche la comprensione di quanto sia complesso realizzare una tavola, dall’idea iniziale alla realizzazione finale. Sono molto grata alle iniziative come questa, proprio perché ci danno la possibilità di dare voce a quello che spesso non viene raccontato».
Cosa non deve mai mancare sul tuo tavolo da lavoro?
«Il mio tavolo è sempre invaso da fin troppe cose: carte per collage, blocchi da disegno, libri da cui traggo ispirazione, pennelli, colori… ma se c’è una cosa irrinunciabile per me sono le matite con cui disegno, con cui butto giù soprattutto le prime idee e i bozzetti. Uso delle normalissime matite con micromina, perché le trovo estremamente pratiche. Direi quindi che ciò che per me è irrinunciabile sono le cose più comuni e basilari: matite, gomma, fogli. Forse perché penso che negli schizzi iniziali ci sia qualcosa di magico, di indefinito, qualcosa che spezza l’horror vacui che si può provare davanti a un foglio bianco, ma che allo stesso tempo non definisce perfettamente il risultato finale, quindi non costringe e non limita in alcun modo. Ho poi dei piccoli “talismani” che mi piace pensare proteggano in qualche modo il mio lavoro, o che mi fermo a osservare quando mi devo ricaricare: a volte è una foto, altre volte un tarocco, ultimamente è un piastrella di ceramica con sopra disegnata una melusina».
Cosa pensi dell’uso dei social per far conoscere il proprio talento?
«Sicuramente ricoprono un ruolo importante nel farsi conoscere e diffondere arte anche presso chi, magari, non andrebbe di persona a una mostra o in una galleria: possono essere un ottimo spunto per avvicinare tanti neofiti a questo mondo. Purtroppo il processo creativo e artistico mi lascia meno tempo da dedicare ai social di quanto vorrei, ma al tempo stesso è fondamentale per la mia attività che è nata ed è cresciuta quando i social ancora non erano così diffusi. A volte mi basta ripensare ai primi disegni fatti su commissione, quando, con le tavole sotto il braccio, mi recavo di persona a consegnarle allo studio per il quale lavoravo, ma in 15 anni tanti sono stati i cambiamenti ed è importante cercare di restare al passo con i tempi».
Hai qualche curiosità da raccontarci?
«Un episodio della mia infanzia. Da piccola mi regalarono un diario, che conservo ancora gelosamente. Inizialmente ressi bene la parte della bambina che scriveva al suo diario, raccontando del più e del meno. Ma poi la mia indole – il mio Daimon, qualcuno direbbe – ha preso il sopravvento, e dapprima qualche disegno ha cominciato a far capolino tra le pagine, poi quelle scritte hanno cominciato ad alternarsi a qualche foglio disegnato, infine il diario è diventato un vero e proprio “sketchbook” pieno di personaggi inventati e corredati di appunti sul loro nome, il carattere, le formule magiche che pronunciavano… Insomma, raccontare con le parole non era per me, se dovevo esprimermi allora ricompariva prepotente l’immagine!».
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