Il biologo, naturalista inglese Charles Robert Darwin diceva che «non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento».
In queste settimane il nostro Paese è stato letteralmente travolto da un uragano invisibile: la pandemia di coronavirus, nota anche come COVID-19 o malattia respiratoria acuta da SARS-COV-2 (dall’inglese severe acute respiratory syndrome coronavirus 2).
Dopo la prima settimana attraversata da profonda incertezza e smarrimento, il Governo ha deciso di emanare una serie di decreti che ci hanno costretto a cambiare velocemente le nostre abitudini, per tentare di arginare il problema, isolare il virus e fermare il prima possibile l’espansione. Di colpo ci siamo ritrovati a fare i conti con noi stessi, rinchiusi nelle nostre case, angosciati dal timore di essere contagiati. Abbiamo riempito come potevamo il vuoto di queste giornate e tutti, inconsapevolmente o consapevolmente abbiamo vissuto l’esperienza dell’horror vacui. Un’esperienza nota ai pittori di ogni epoca. Mi spiego meglio. Con il nostro tenerci occupati sperimentando ad esempio nuove ricette, facendo aerobica in casa, o ascoltando musica abbiamo tentato di riempire un vuoto, uno spazio: il nostro tempo. Probabilmente non ne siamo consapevoli, ma abbiamo vissuto l’esperienza del pittore, dell’artista, il quale riempie spazi soggiogato dal timore del vuoto.
In questo meraviglioso quadro, realizzato nel 1952 dal famoso pittore statunitense Edward Hopper, è incastonato un frammento di quel vuoto. Hopper infatti riesce a rendere concreta quella sensazione con cui tutti noi stiamo facendo i conti, in questi giorni di assoluta solitudine. L’unica differenza è che i personaggi appaiono surreali e lo capiamo dall’incertezza dello sguardo che vaga nell’altrove, lontano da ogni forma di concentrazione umana. Due signori attempati tentano invano di riempire, occupare un tempo: il soggetto in piedi fumando, e l’altro leggendo.
Siamo nella prima metà del Novecento e un giovane creativo di nome Edward Hopper si arrangia come può, per coltivare la sua più grande passione: la pittura. Per mantenersi accetta un lavoro come illustratore per un’agenzia pubblicitaria. Sono tanti i suoi colleghi che sognano di diventare Renoir ed esporre nelle più importanti gallerie dell’epoca, ma finiscono puntualmente per diventare vittime di uno spietato sistema economico, che li vuole schiavi e non artefici del proprio destino. Come ogni artista si trova dunque a fare i conti con un mondo che esige un prodotto ben preciso, che però non è il proprio, finché non decide di allargare i propri orizzonti e partire per l’Europa, alla ricerca di uno stile personale. Raggiunge Parigi, la tappa obbligatoria di ogni artista che si rispetti e proprio in quella città ricca di stimoli dà alla luce se stesso.
Torna a New York con un nuovo bagaglio pittorico e nel 1929 si aprono per lui le porte del MoMa, successivamente, nel 1933, riesce a realizzare la sua prima personale. Ottiene finalmente un riconoscimento e l’originalità delle sue opere attraversa l’Oceano e non si ferma più.
Il tema centrale del suo lavoro, diventa la solitudine dell’uomo nei suoi nuovi, vasti spazi urbani: le sue case isolate, le strade, i caffè notturni, saranno emblemi di spazi troppo dilatati per essere accoglienti. E’ il trionfo della metropoli moderna.
Gli scenari desolati delle sue opere ricordano molto De Chirico, che probabilmente aveva visto durante il suo viaggio in Europa.
In particolare in questo quadro riusciamo a scorgere persino un vago riflesso del cubismo, nello specchio, in quell’immagine spezzata dalla luce. Il suo realismo risulta essere molto figurativo con una venatura di Realismo Magico, questo perché le figure rimangono molto misteriose e sospese nel tempo. In quest’opera, attraverso anche un attento studio della luce, egli riesce a trasferire ai suoi personaggi un “afflato poetico”, nonostante essi siano colti dal quotidiano e quindi dalla realtà di quei tempi.
Tutti noi siamo potenziali soggetti di un dipinto di Hopper, e ancor di più lo siamo in queste settimane cruciali.
Rispetto a molti altri pittori del suo tempo egli ha potuto godere di sostanziosi riconoscimenti in vita, e lo stile personale che raggiunse, divenne emblematico persino attraverso la sua morte: morì nel suo studio da solo, all’età di 85 anni.
Il decesso di Hopper rientra perfettamente nell’iconografia della vita di un artista: aveva trascorso una vita a dipingere gli altri, e a donare ai suoi personaggi l’eternità; il 15 maggio del 1967 giunse finalmente il suo turno, la natura prese il suo pennello e dipinse la sua morte.
a cura di Maria Rosaria Cancelliere