N.05-VI.2022 “Fotografia Nuda”
Testi di Alessandro Russo-arph.it
Come si fa ad estrarre dalla testa i nostri pensieri più profondi e permetterci una relazione con gli altri? Ogni parola che tiriamo fuori dalla bocca è una interpretazione, un sottile meccanismo che fa di noi delle ‘Stele di Rosetta’ ambulanti, animate, ma anche distaccate e complesse. Per farla breve: siamo così inconsciamente arroganti che crediamo di illuminare le stanze buie che abitiamo semplicemente con la nostra presenza: invece traduciamo idee e lo facciamo affinché siano comprensibili. Lo facciamo continuamente, e gli altri lo fanno continuamente rispetto a noi: quindi nella vita reale, quotidiana, è veramente complicato capirsi! Come nel gioco del telefono: alla fine del filo rimane una traccia, rimane un soffio di quella che all’inizio era una parola. Lo ribadisco perché parlando di simbolismo, di surreale, di sillogismo dell’immagine, di fotografia creativa e altre altisonanti terminologie accademiche, dobbiamo sempre avere bene in mente che, di fatto, capirsi, è complicato! Serve una gran dose di pazienza e curiosità per mettersi nei panni di un autore che tira fuori dalle immagini concetti astratti, perché le inumidisce con la propria intimità, le accarezza con la propria emotività e quindi senza entrare in empatia con l’autore, senza comprendere le motivazioni di un lavoro, non si possono leggere e interpretare i simboli che si celano sempre dietro una fotografia pensata.
Un preambolo criptico, lo ammetto. Ma, perfettamente in linea col tema di questa puntata che svelo subito essere un tributo ad un autore che ho amato fin dalla sua scoperta. Questo pezzo è destinato alla memoria di Gilbert Garcin, un fotografo francese che ha dedicato gli ultimi trent’anni della sua vita al simbolismo, alla fotografia astratta e soprattutto insegnando quanto è necessario avere cura delle proprie viscerali passioni e curiosità, perché per agire c’è sempre tempo.
Parlo degli ultimi trent’anni, perché per i primi sessanta era invece una persona ordinaria, un lavoratore non consacrato certo alla fotografia e neppure conosciuto oltre i confini del suo piccolo paesello. Poi un giorno fiorisce, va in pensione e scopre che i sessant’anni che ha vissuto sono stati l’incubatrice dei suoi pensieri più surreali, che ha il bisogno fisico di produrre con manualità delle immagini che possano rappresentare le sue elaborate visioni. Si arma di una vecchia macchina fotografica, qualche taglierino e tanta creatività: tira fuori dal cilindro una proiezione di sé stesso che posiziona in situazioni paradossali e surreali, sempre diverse e sempre legate da un filo invisibile. Rappresenta a pieno l’ideale del fotografo romantico, quell’artigiano che si chiude tra quattro mura e realizza opere legate al proprio pensiero. Così alimenta la sua vecchiaia di nuova linfa, decide che l’interno della sua mente è di gran lunga più interessante della figura minuta e anziana che gli altri guardano. Raccorda il mondo trascendente delle sue emozioni in un apparato tangibile, attraverso collage che uniscono frammenti di disegni e fotografie. Garcin si addentra in una dimensione ricca di simboli, facendosi largo nella memoria della sua vita e riscoprendo gli insoluti, la malinconia, la maturità e la ricchezza di chi ha stratificato sulla propria pelle il passaggio del tempo.
Così il vecchio dalla faccia a volte simpatica, a volte triste, che viaggia di fotografia in fotografia, di universo in universo, sembra rimanere lì sospeso mentre tenta di saltellare tra un vuoto e l’altro, fluttuando in una ricca carrellata di non-sense che quello strano fotografo ci ha regalato.
Cosa mi ha insegnato la lettura delle sue fotografie? Soprattutto a puntare verso la complessità, a camminare verso quel sentiero impervio della mente dietro il quale si nascondono i simboli che codifichiamo con le nostre ansie, le nostre paure e soprattutto con la grande voglia di comunicare che ci batte nel petto ogni giorno.
Che sia fotografia, pittura, scultura, illustrazione o letteratura quello che davvero conta è alzarsi dal letto in una mattina qualunque di novembre, magari a settant’anni, magari con la maledetta voglia di cominciare un nuovo giorno con la famelica curiosità di un bambino di cinque anni. Ogni giorno un nuovo inizio, ogni giorno un tassello simbolico di un’opera che per definizione resterà incompleta.
Io da grande non voglio essere un fotografo.
Io da grande voglio essere Gilbert Garcin.