Rossella Bessi è una pittrice e disegnatrice che dipinge per comunicare anche con se stessa. Per lei l’arte è una lingua libera che ognuno può parlare perché senza schemi prestabiliti.
Breve presentazione.
«Mi chiamo Rossella Bessi, nasco a Livorno nel 1984 e disegno sin da piccola con grande passione. Forse l’arte era già nel mio DNA perchè il mio bisnonno materno era Giulio Ghelarducci, un pittore labronico che viaggiò a lungo anche in Africa, raffigurando paesaggi lontani. Purtroppo non l’ho mai conosciuto, ma la casa dei miei genitori e dei miei nonni è sempre stata piena delle sue opere. Mi diplomo nel 2003 al liceo linguistico, e conseguo poi la laurea triennale in scienze dell’educazione, il master in coordinamento pedagogico, ed al momento sto concludendo il corso di laurea magistrale in scienze pedagogiche».
Quando hai deciso di fare arte e cosa vuol dire per te dipingere.
«Ho sempre disegnato sin da piccola, manifestando una spiccata capacità, mi sarebbe piaciuto approfondire studiando al liceo artistico e proseguendo in questo ambito all’università, ma la mia famiglia non lo ha mai reputato un percorso remunerativo e quindi mi sono orientata su altro. Più precisamente qualcosa che mi avrebbe permesso di insegnare ai bambini a seguire la loro strada… e quale professione migliore se non l’insegnante o l’educatore? Se una persona nasce con un talento, un’energia interiore che la spinge verso una passione, è difficile abbandonarla, o smettere di credere che possa avere un posto importante nella propria vita. Ecco che intorno ai 21 anni, attraverso conoscenti , amici e vicissitudini varie, decido di cimentarmi nel mio primo “affresco” nella mia camera… e in seguito in un secondo affresco nell’ingresso della casa dei miei. Il risultato mi piace (e non solo a me!)… e quindi decido di sperimentare anche su tela. Anche questo mi piace talmente tanto che per diversi mesi dipingerò circa un quadro a settimana. Negli anni seguenti grazie a un mio carissimo amico fotografo ho avuto anche l’opportunità di intraprendere collaborazioni come stylist e make up artist… tutto da autodidatta ovviamente. Sono stati anni creativi molto intensi e pieni di belle esperienze. Poi nel 2013 sono partita per l’Australia e sono rimasta là per circa 3 anni durante i quali la produzione di opere è sensibilmente rallentata per lasciare spazio ad altre fantastiche esperienze di vita. Tornata da quel continente e da un lungo viaggio in sud est asiatico, inevitabilmente la mia produzione artistica ne ha “risentito” in positivo, l’arte aborigena in particolare ha lasciato un grande segno nella mia visione creativa. Per me dipingere vuol dire COMUNICARE, spesso anche con me stessa. Capita che le immagini mi aiutino a chiarificare i miei stessi pensieri. Dipingere per me significa condividere un punto di vista, utilizzare un mezzo assoluto di libertà, perché in arte ognuno parla la propria lingua senza schemi prefissati. L’arte è quello spazio sicuro dove il pensiero divergente può esprimersi come un flusso che rappresenta l’ambito simbolico del viaggio della mente.
Sono costantemente alla ricerca dell’inedito. Quando mi viene un’idea vado subito a controllare in rete se qualcun altro in giro per il mondo ha già avuto la stessa idea, e se è così, mi dico “devo farmi venire qualche altra idea”. E’ come se sentissi che se qualcun altro ha già pensato alla stessa cosa, il mio contributo non aggiunge niente alla collettività, devo dunque continuare la mia ricerca. Odio copiare. Anzi non mi riesce proprio. Ho un bisogno profondo di inventare, di ricercare».
Tu svolgi la professione di educatrice e l’arte è molto importante in questo.
«Tutte le volte che ho studiato e che continuo a studiare quanto sia importante la creatività per i bambini e le bambine, per sviluppare il pensiero divergente, per sviluppare il problem solving, per sviluppare visioni inedite dell’esistente, per apprezzare la bellezza del mondo, per sapersi muovere nell’incertezza, mi emoziono: perché è proprio ciò che sento in prima persona ed ogni volta che a lavoro contribuisco allo sviluppo della creatività e alla libertà di pensiero e di espressione di altri individui in crescita, sento che sto facendo la cosa giusta».
Tornando al tuo lavoro artistico, come descriveresti il tuo stile.
«Definirei il mio stile uno stile entusiasta. Ho passato i primi 20 anni della mia vita a disegnare solo a matita, i colori non mi appassionavano, perché non ne avevo ancora scoperto le potenzialità, perché forse dentro di me “non ero ancora abbastanza colorata”. Poi per una serie di esperienze di vita la mia mente si è “ravvivata” e anche le mie opere sono esplose di colori. Anche se alcuni dettagli o soggetti delle mie opere a volte possono sembrare negativi, in realtà attraverso i colori esprimono l’entusiasmo di trasformare qualcosa di brutto in qualcosa di bello. Per quello mi diverto a incasellarmi astrattamente nelle categoria pittorica della NEUROECOLOGIA… nel senso che spesso le mie opere derivano dal riciclo creativo di sensazioni/emozioni/pensieri negativi, che voglio trasformare in qualcosa di bello esprimendoli attraverso l’arte».
Come prendono vita le tue opere.
«Le mie opere nascono da ispirazioni ed idee che prendono vita come dei sogni coscienti, le immagini si presentano dal nulla quando vogliono, come delle visioni. Sono proprio idee improvvise, intuizioni, che sopraggiungono quando sto facendo altro, sovrappensiero. Se lancio un’occhiata distratta a qualcosa, ecco che arriva l’idea. Magari se la cerco non la trovo, ma se non ci penso ecco che arriva. Camminare all’aria aperta spesso mi serve molto, la mente va libera e crea associazioni d’immagini. Però a volte mi capita anche di mettermi davanti a una tela bianca senza un’idea precisa e guardando il foglio visualizzo piano piano i dettagli e butto giu le forme. Il foglio bianco per me è liberta, lo vedo come un’opportunità. Posso fare quello che voglio, è ossigeno per me, ci sono persone che si sentono in crisi davanti al silenzio, davanti ad uno spazio vergine, per me è spazio di vita».
Hai qualche soggetto che prediligi raffigurare.
«Le mie opere spaziano tra vari soggetti… ultimamente però mi sto concentrando maggiormente sui ritratti».
Realizzi anche su commissione?
«Sì, lavoro anche su commissione ma ci tengo molto a capire cosa vogliono le persone dalle mie opere. Non sono convenzionali, tendo a stravolgere i rapporti tra le cose, amo gli abbinamenti inaspettati, e dunque anche quello che viene commissionato non deve essere convenzionale. Sarebbe un po’ come commissionare a Picasso un ritratto precisamente fedele alla realtà. Non rappresenterebbe il suo stile, la sua visione del reale. Amo tradurre la realtà nel mio linguaggio».
Qual è il tuo sogno artistico.
«Che venga riconosciuto a livello internazionale il mio modo di vedere e comunicare, che possa collaborare con artisti di tutto il mondo e fare nuove esperienze. Che la mia arte possa essere d’ispirazione per grandi e piccoli, che possa aiutare chi ne ha bisogno a trovare la sua strada».
C’è un’opera a cui sei particolarmente legata?
«“L’Ascensore” di Franco Lastraioli. Ricordo che era nell’ultima pagina del libro di storia dell’arte del liceo e fu un autore che la professoressa non affrontò nel programma annuale. Ma ricordo che di tutto il libro, quell’opera dell’ultima pagina, mi colpì moltissimo. Quella e le altre opere di Franco Lastraioli sono opere sognanti, surreali, irreali, fuori dagli schemi, allegoriche, colorate.
Caratteristiche che mi affascinano e nelle quali mi sento rispecchiata».
Stai lavorando a qualche progetto in particolare?
«Sì, al disegno su carta fotografica. Quest’estate ho ripreso in mano delle vecchie foto, le ho guardate e mi sono detta “qui manca qualcosa” e dunque ho cominciato a fantasticare uniposca alla mano. Il risultato è stato interessante allora ho continuato su altre 20 foto circa, e poi sono passata alle foto di moda sulle riviste. Mi sta appassionando… e chissà che non mi aiuti a farmi venire nuove idee da riportare su tela!»
Una curiosità prima di lasciarci.
«Solitamente appena finisco un quadro, non mi piace. Devono passare un po’ di giorni affinchè mi piaccia. Lo tengo da una parte per due, tre giorni, ogni tanto lo guardo e poi piano piano ci faccio pace. Penso che sia un fare pace tra come avrei voluto che venisse, e come effettivamente alla fine è venuto. Sono sempre convinta che posso fare di meglio. Però ogni quadro alla fine mi comunica qualcosa, e nel momento in cui accetto ciò che lui mi vuole dire, mi piace».
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