andrea putortì

Un game artist super attivo e dallo stile bastardo

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Andrea Putortì è un game artist di professione che ha capito fin da subito che avrebbe fatto questo di mestiere quindi un sogno che si realizza.

Breve presentazione.
«Mi chiamo Andrea Putortì, ho quei fatidici 30 anni e vivo a Milano da 3 di questi, ma sono originario di Reggio Calabria. In quest’ultima città ho frequentato l’Accademia di Belle Arti, laureandomi in Grafica d’Arte. Infatti, questo è stato il mio ruolo professionale per diversi anni: il graphic designer, l’UI/UX designer, il web designer… Insomma, il grafico.
Ma, come avevo previsto, m’è stato stretto, sia come lavoro, che come ambiente e circostanze annesse. Dunque ho impiegato del tempo preziosissimo per crescere professionalmente nella mia passione più grande: la game art».

Tu sei un game artist, cosa vuol dire?
«Letteralmente Artista Ludico o Artista Per Giochi. Vuol dire che, in pratica, mi occupo di creare tutto il comparto visivo e grafico dei giochi. Nello specifico, videogiochi. Per questo è anche chiamato “video game artist”. Ma è un ruolo che tendo a lasciare un po’ ampio, perché sebbene io stia progettando principalmente videogiochi (tra cui il mio), tendo a lavorare anche su altri settori. Ad esempio, sto anche creando un gioco da tavolo: un progetto a quattro mani con una cara amica e collega.
Insomma, ogni volta che apri un videogioco e ti commuovi per l’impatto grafico di uno sfondo nebbioso in parallasse o per uno scontro visivamente epico oppure soltanto per i tasti del menu iniziale (questa è ardua), devi ringraziare un game artist. E magari anche l’art director, porello».

Quando hai deciso che avresti voluto lavorare nel mondo dei games?
«Adoro questa domanda, mi mette tanta nostalgia.
Perché, anche se sembrerà strano, è tanto una delle decisioni più importanti della mia vita, quanto una delle più lontane nella mia memoria.
Decisi di voler diventare uno sviluppatore videoludico a circa 7 o 8 anni. Sarà stato il ’97.
Insomma, il pieno periodo di boom della nuova generazione di videogiochi. Il decennio della PlayStation.
Chiusi nella claustrofobica camera di un amichetto d’infanzia, si giocava ininterrottamente ad un’infinità di classici.
Poi, ad un tratto: pausa.
Sguardi al futuro. Dubbi. Chiesi:”Che vuoi fare da grande?”

“Lo sviluppatore di videogiochi!”
Ed io, che fino ad allora, innocentemente, concepivo i videogiochi come un oggetto concessoci dagli dei, creato magicamente, esclamai:
“Cazzo, anch’io!” – sì, ero abbastanza scurrile da piccolo, non avevo molto successo tra le mamme dei miei amici –
“Ma come?!”
Dunque da lì iniziai ad interessarmi sempre di più all’arte, al disegno, ai videogiochi e alla scrittura. Persino al codice. Volevo cercare di diventare un artista e uno sviluppatore a 360°, il più indipendente possibile.
Volevo creare qualcosa che emozionasse il prossimo tanto quanto era stato fatto a me. Ma come dicevo prima, il mio percorso mi portò a studiare grafica e a rallentare la game art, settore che ho raggiunto da autodidatta dopo diversi anni. Quando mi trasferii qui, a Milano, mi dessi 2 anni di tempo per guadagnare un finanziamento sufficiente per un anno, per poi iniziare uno studio matto e disperato per incrementare le mie abilità da game artist e poter sviluppare un mio videogioco.
Ed eccomi qua».

Come definiresti il tuo stile?
«Domanda un po’ complessa.
Il mio primo contatto artistico è stato con il disegno. Tramite questo ho studiato e sviluppato uno stile volutamente grezzo per il fumetto, che mi sto portando dietro da anni, che dunque ha impattato inevitabilmente il design della mia game art.
È uno stile un po’ bastardo.
Sì, mi piace come suona. Lo chiamerò così per ora».

Adesso però vogliamo sapere come nasce un game e che ruolo ha la grafica in tutto questo.
«Beh, innanzitutto permettimi di fare una categorizzazione, in quanto io sono un umile e povero indie dev, uno sviluppatore indipendente, ed in quanto tale lavoro su giochi indipendenti, principalmente. E, più raramente, per grosse compagnie.
Un gioco o un videogioco puoi dunque suddividerlo, evitando tante sfumature, tra due grandi categorie: indie e tripla A (AAA). La differenza con la seconda è che sono giochi concepiti, studiati e partoriti dopo anche anni, supportati magari da una produzione che sa già quello che vuole e cerca semplicemente i suoi cavalli da combattimento con cui macinare il progetto il più velocemente possibile (non sempre).
Quello su cui preferisco lavorare io è l’indie.
Adoro i progetti concepiti in singolo o da un team ridotto. Lo studio diventa più intimo, le idee più chiare e nitide. Non hai l’alito del produttore sul collo e puoi gestire come meglio credi il tuo progetto.
Come nasce? Accade che sei andato a letto tardi e crolli male, non metti la sveglia così puoi dormire tanto, dunque accade che riposi meglio, magari sogni. Accade che nel mezzo della notte ti svegli perché hai sognato l’intera trama di un videogioco. Accade che stai sveglio dalle 4 alle prime luci dell’alba, a scrivere uno script grezzo per non dimenticare tutto. Oppure accade che stai passando una brutta giornata, tra sudore e calura estiva. Accade che fai una pausa dal lavoro e guardi fuori dalla finestra, tra le tegole dei tetti di periferia.
Accade che ti si riaffiorano ricordi nostalgici di quando, seduto sul sedile della vecchia Fiat Croma di tuo padre, immaginavi personaggi che corrono sui tetti delle case, verso un’avventura.
Così di getto butti giù i primi mockup e le prime idee, i primi script e i primi design. A volte l’idea non la puoi comandare e i tecnicismi vanno a quel paese.
Quindi appena hai scaricato l’adrenalina, inizi un lungo processo di creazione diviso, generalmente, in diverse grandi fasi: concept, design, script, development (programmazione + arte), testing, marketing, pubblicazione».

E le tue opere?
«Già il fatto che le chiami “opere” significa molto per me.
Ho diversi progetti personali a cui tengo molto e che porto avanti districandomi tra i lavori da freelancer che spesso mi occupano a tempo pieno. Ogni giorno cerco di produrre qualcosa di personale, non necessariamente connesso ad alcun progetto, che sia character design o environment design. Parto dal concept su carta, per arrivare alla pixel art e all’animazione rotoscope (frame by frame, come ai vecchi tempi), la quale anche per pochi secondi può richiedere ore se non giorni di progettazione e lavoro.
Attualmente sto sviluppando un videogioco, A Rooftop Tale (i primi mockup sono postati su Instagram e portfolio), attualmente in fase preliminare, ma con l’obiettivo di creare una campagna Kickstarter entro il prossimo anno, per poter finanziarne lo sviluppo completo e dunque venderlo.
Si tratta di un’avventura 2D in pixel art a scorrimento laterale, incentrata su una storia e supportata da dinamiche action e puzzle.
È ambientato in una periferia di una piccola cittadina che è stata sommersa da un’alluvione e i cui animali, domestici o randagi, persi o abbandonati, hanno trovato riparo e sicurezza sui tetti delle case, marcandone i territori.
Il protagonista, Francis, un bulldog francese adottato da una gatta di strada, decide di imbarcarsi in un viaggio per raggiungere la città e svelare un mistero. Ovviamente, lungo la strada, incontrerà diversi problemi e qualche personaggio non molto amichevole.
Il gioco è creato interamente in pixel art, usando Marmoset Hexels, un software creato ad hoc per questo tipo di lavori (pixel, trixel, polygon e digital art). A questo ci affianco il game engine su cui programmo le meccaniche di gioco. Ma, non essendo un programmatore, ovviamente utilizzo Bolt, un add-on per Unity (il motore di gioco) che mi permette di usare il visual scripting. In pratica, converte in schemi e flussi grafici le linee di codice che altrimenti, per uno che ne ha studiato poco come me, aumenterebbero di molto la mole di lavoro o non mi permetterebbero di lavorare in solitaria.
Altri due progetti a cui tengo particolarmente riguardano un fumetto disegnato su carta e un gioco da tavolo. Come anticipavo prima, le mie passioni non si limitano al settore videoludico, amo profondamente l’arte sotto varie forme: il fumetto è di genere drammatico da uno stile appositamente grezzo e sarà una lavorazione di lunga durata che richiederà molta attenzione nella stesura della sceneggiatura prima di disegno e inchiostrazione, i quali spero di riuscire a concludere in un futuro non lontano; il gioco da tavolo, invece, è un progetto molto simpatico e originale, lavorato a quattro mani con una collega e amica, la quale mi scuoierebbe vivo se ne parlassi oltre (giustamente).

C’è un’esperienza lavorativa che ti ha dato maggior soddisfazione?
«Sì, due. Entrambe recenti.
La prima riguarda il mio gioco. Seppure non ci abbia ancora guadagnato nulla, è incredibilmente emozionante e travolgente a livello emotivo ricevere migliaia di feedback da utenti che chiedono ad alta voce di creare e farli giocare a qualcosa di cui finora ho soltanto creato mockup e design, dando per scontato che quanto partorito finora sia il vero gioco. Ti dà una spinta morale e professionale indescrivibile. Ti suggerisce che forse, e dico forse, qualcosa nella tua vita sta prendendo una piega decisamente giusta e i tuoi obiettivi diventano più nitidi, le tue convinzioni più realistiche e i tuoi sogni più palesi».
La seconda è una lavorazione che sto attualmente svolgendo con una nota casa videoludica. Inizialmente non sapevo nemmeno con chi stessi lavorando, in quanto ci stavo (e sto) collaborando tramite un’azienda terziaria. Ma poi, dopo una firma all’NDA, è arrivata la grossa notizia e questo mi ha un po’ sconvolto.
Perché per quanto abbia sempre dato il massimo e fornito il più alto livello di qualità possibile ai miei clienti, non avrei mai pensato che (a poco tempo dall’inizio della mia carriera videoludica) una così grossa compagnia di videogiochi potesse essere tanto interessata al mio profilo artistico.
È molto soddisfacente, ma altrettanto stimolante per continuare a dare e pretendere di più, non accontentandosi.
Sembro molto ambizioso, lo so. Ma ho determinati piani nella mia vita, che prevedono uno studio per lo sviluppo videoludico e d’animazione. E non ho intenzione di accantonarli».

Quanto servono i social nel tuo settore?
«Tantissimo.
Nonostante non siano l’unico mezzo per guadagnare notorietà e dar valore al proprio prodotto e alla propria arte, il mercato artistico e videoludico è estremamente saturo, ad oggi, sia di indie dev che di grosse compagnie.
Ognuno vuole il proprio spazio, così come in ogni altro tipo di lavoro. Una volta il massimo del proprio spazio era un negozio davanti al marciapiede, adesso è tutto (anche) digitale.
Dunque devi studiare, più che “lottare” per guadagnare quel posto. Il marketing si evolve giorno dopo giorno e i social ne fanno parte. Facebook, Instagram, Twitter, Reddit, Imgur e così via. Ce ne sono molti, di siti, che ti permettono di macinare follower, ma ognuno di questi ha le sue modalità e i suoi “prezzi” da comprendere.
Parliamoci chiaro, ci sono alcuni artisti che non hanno avuto bisogno di dare particolare attenzione alle meccaniche social e al marketing, altri invece, nonostante talentuosi, hanno trovato e trovano difficoltà.
Il problema è che raggiungere la “via del corso principale” della città, con il proprio negozio, è estremamente difficile.
Promuovere il tuo gioco o il tuo prodotto, può richiedere molto tempo (indipendentemente dalla qualità), ma a volte basta anche 1 solo post o una sola immagine / gif nel giusto social al momento opportuno, per far sì che il tuo si differisca dalla massa.
Se hai un progetto a cui vuoi dare visibilità e successo, io, personalmente, consiglio sempre di dedicarci almeno il 30% del suo tempo sul marketing e di raggiungere il maggior numero di social (inerenti e utili al tuo settore) possibili».

Cosa non deve mai mancare sul tuo tavolo da lavoro?
«Sketch book e pennelli, tavoletta grafica, 1 litro d’acqua, secondo monitor per una serie in sottofondo e 1 bustina di gaviscon per sciacquare giù la gastrite nei giorni più stressanti».
Prima di salutarci, hai qualche curiosità da raccontarci?
«Sì, proprio stamattina mi sono svegliato con una notifica di Facebook che mi ricordava un post che scrissi 9 anni fa.
Praticamente era un incipit di una storia mai scritta ma che mi creava un profondo senso di malinconia. Non sapevo cosa farne e rimase accantonata.
Questa mattina, 9 anni dopo, la rileggo (grazie social?) e, immediatamente, so esattamente dove inserirla.
L’ho leggermente adattata, corretta e inserita nella sceneggiatura di un videogioco che ho intenzione di sviluppare nei prossimi anni.
Beh, è abbastanza curioso, per me, come delle parole scritte 9 anni fa assumano l’esatta forma di ciò che sto scrivendo ora. O forse l’hanno sempre avuta ma io non me n’ero accorto. Come se le avessi concepite con questo scopo.
Le lascio qui, semmai ti piacesse a tal punto da condividerla:
“È passato più di un mese dall’ultima volta che la vidi.
Quel giorno era splendida. Era emozionante guardarla mentre parlava di sé, dei suoi successi, dei suoi obiettivi realizzati e di ciò che ancora desiderava compiere.
I suoi occhi si illuminavano ogni volta che iniziava una nuova storia. Ed ogni volta che rideva, mi si apriva un enorme sorriso in volto.
Era rilassante stare ad ascoltarla, guardarla scegliere la sua canzone preferita del giorno, imitare scene dei film più famosi e condividere una birra artigianale di sottomarca.
Stavo seduto sulla poltrona a pensarci.
Al modo in cui rifiutai di seguirla, al modo in cui il mio orgoglio mi portò lontano.
Così le ho comprato un girasole, uno di quei fiori che adorava, che non le ebbi mai comprato, ma che avrei dovuto.
L’ho piantato ai piedi della sua lapide. Mi sono seduto di fronte a lei sull’erba bagnata e ho iniziato a parlare di me, delle mie gioie, dei miei problemi, di come trovavo buffo che, se avessi insistito soltanto una volta in più, se non fossi stato così orgogliosamente stupido, probabilmente quel mattino saremmo stati insieme a fare colazione e io non sarei stato lì a offrirle un sorso di birra, lasciandolo scorrere attraverso due metri di terra umida.”

Scopri il video dedicato all’artista

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